Demand Full Laziness
Per 5 anni Guido Segni delegherà la sua produzione artistica a processi di automazione e algoritmi: nel tempo liberato si dedicherà all’ozio. Pubblichiamo un estratto della conversazione con Giovanna Maroccolo, per leggere tutta l’intervista, andate sul sito di Menelique
G.M.
È successo a primavera di quest’anno alla mole vanvitelliana di Ancona, dove mi trovavo per curare l’intervento di un artista in una mostra dedicata all’intelligenza artificiale. Tu non c’eri e il primo incontro con te l’ho fatto di fronte a Demand Full Laziness, un tuo lavoro recente che negli ultimi due anni ha fatto discutere non poco. In uno schermo intravedo la tua immagine sfocata, che ti ritrae in pieno ozio mentre nel letto ti riposi con un libro tra le mani. Il libro in questione ha attirato la mia attenzione, in quanto chiara citazione a ciò che ha ispirato la tua opera, il pensiero di Nick Srnicek e Alex Williams sulla relazione tra lavoro, società e le potenzialità che l’I.A. offre in un’ottica di liberazione dal sistema capitalistico. Inutile dire che è stato facile capire che una chiacchiera dovevamo proprio farcela.
G.M.
Dalla nostra prima lunga telefonata ho capito che non ti piace molto stare sul piedistallo, preferisci raccontarti attraverso ciò che ti ispira e che si materializza nel tuo lavoro, ma molti sono gli argomenti che vorrei discutere qui con te, a partire dalla tua esperienza nei collettivi di Net-Art italiani negli anni 2000 e delle tue azioni/performance di Hacktivismo. Ho paura che ti toccherà stare un po’ sotto i riflettori. Iniziamo dall’opera che ci ha fatti conoscere: Demand full laziness è una long-term performance nata agli albori del 2018, attraverso la quale deleghi a una I.A. istruita con algoritmi di deep-learning la produzione delle tue opere per cinque anni. Più che una provocazione mi sembra una proposta. Cosa hai in mente?
G.S.
Più che proposta e provocazione mi piace pensare che Demand Full Lazinesssia più genericamente una storia. In forma tecnologica e performativa ma pur sempre una storia. E come tutte le storie prova a raccontare e rendere leggibili alcuni aspetti della realtà in cui viviamo. Nello specifico metto in scena l’utilizzo di una tecnologia che sta sulla bocca di tutti, la famigerata intelligenza artificiale di cui si parla tanto e a sproposito, e provo a reinquadrarne il senso e le possibile prospettive di emancipazione: per cinque anni, dal 2018 fino al 2023, delegherò una buona parte della mia produzione artistica a processi di automazione e a algoritmi di nuova generazione (reti neurali e machine learning) e nel tempo liberato mi dedicherò all’ozio. Non a caso la prima serie di opere prodotte prende il nome di The machine is learning, the artist is resting, e consiste in una serie di (auto?) ritratti prodotti dalla ‹macchina› dopo avermi osservato durante le mie sessioni di ozio performativo. I risultati prodotti non sono che la traccia di un arco spazio-temporale performativo di cinque anni con cui vorrei suggerire come la tecnologia possa sì sostituire l’uomo, ma liberandolo dal lavoro.
G.M.
Il modo in cui ti relazioni con la tecnologia e con i media ti permette di raccontare uno spaccato di presente ma non solo. Ciò che fai in fin dei conti è produrre alternative di pensiero e sinceramente penso che l’arte oggi abbia un ruolo centrale nella narrazione di questa sempre più urgente società futura. Diamo per scontato ciò che abbiamo sempre conosciuto come giusto o normale, e questo fa concentrare il nostro pensiero critico solo su quelle istanze che riconosciamo come nuove o estranee. Serve qualcosa che agisca invece sulle convenzioni radicate e che metta in discussione le storie che ci siamo raccontati finora. Che ruolo potrebbe avere la tecnologia in quest’ottica, rispetto a un tema come quello del lavoro, uno dei pilastri su cui si fonda la società del capitale?
G.S.
Che l’innovazione tecnologica sia da sempre un elemento chiave nel modificare e creare nuovi equilibri sociali e politici è un fatto abbastanza scontato su cui peraltro credo di non aver titolo per parlare. Ciò che trovo più interessante da un punto di vista artistico è la implicita funzione immaginifica e narrativa che le tecnologie posseggono. Mi spiego meglio con un esempio: la scelta di lavorare con reti neurali e algoritmi di deep learning in Demand Full Laziness non è stata dettata dal voler raggiungere un certo risultato formale. Scegliere di lavorare con il machine learning presupponeva di cavalcare l’hype del momento per mettere al centro dell’opera la tecnologia stessa, tematizzata attraverso gli impliciti immaginari utopici e distopici così come il discorso pubblico che la circondano. Quando le persone guardano ad esempio Lot no. 2018/000001le persone non guardano solo il soggetto e il risultato formale per quelli che sono: spesso sono più interessate a capire cosa ha reso possibile quello che vedono e quali possono essere le implicazioni: ma davvero un software, un algoritmo può sostituire un artista? Come amo ripetere, Demand Full Laziness è prima di tutto una storia. Una storia il cui racconto deriva dalla parola ozio e dall’utilizzo delle parole algoritmo e intelligenza artificiale. Il risultato formale è solo la prova di cui ha bisogno l’occhio per credere alla storia. Del resto questo fenomeno della narrativizzazione della tecnica lo possiamo riscontrare quotidianamente sfogliando un qualsiasi giornale con articoli di questo tenore: Intelligenza Artificiale: il ristorante del futuro è qui; Il sex toy che sfrutta l’intelligenza artificiale per fare sesso orale; I dipinti rovinati di Van Gogh ricostruiti con l’intelligenza artificiale, e così via.